I motori diesel hanno come principale difetto l’emissione di piccole particelle di inquinanti nei gas di scarico. Nei primi anni del XXI secolo, ci fu un vero e proprio boom di filtri che combattevano questa forma di inquinamento. Dopo quasi vent’anni, in virtù delle sempre più restrittive norme sulla qualità dell’aria, conviene ancora montarli?
Il primo diesel ad avere installato un filtro per migliorare la qualità delle emissioni è stato quello della Peugeot 607 nel 2000. Il nome tecnico è Diesel Particulate Filter, abbreviato con DPF e tradotto in italiano con FAP (Filtro Antiparticolato), protetto da brevetto internazionale. Fin da subito le altre case automobilistiche si interessarono a questa tematica e, in poco tempo, brevettarono altri sistemi simili all’originario FAP, senza andare a violare il brevetto originario. Si registrò una vera e propria lotta alla costruzione del miglior filtro antiparticolato per diesel in circolazione. Tutto ciò per limitare le emissioni di PM10 che sono cancerogene per la nostra salute e rendere la qualità dell’aria delle nostre città, più pulita.
Sebbene esistono diverse tipologie di filtri FAP, fondamentalmente il funzionamento è il medesimo. Dal punto di vista tecnico è un vero e proprio ostacolo che viene inserito per impedire ai residui della combustione, di dimensione superiore ai 10 micron (ovvero 10 millesimi di millimetro), di essere emessi nell’aria. Fisicamente si tratta di un involucro tubolare in acciaio inox con all’interno una particolare rete o una serie di lamelle o tubicini. Queste particelle sono costituite da composti di zolfo incombusti, acido solforico, acido solforoso e sono tra le principali cause dell’inquinamento nelle nostre città, per il comparto automotive.
La tecnologia FAP combatte queste emissioni, andando a filtrarle, raccolte e infine bruciate a circa 450 gradi ogni 300/500km, liberando il catalizzatore, una volta che la velocità di crociera dell’auto è costante per un determinato numero di chilometri. Fisicamente lo troviamo inserito nello scarico dei motori e per funzionare ha bisogno di un particolare additivo, chiamato cerina, per funzionare correttamente. Il nome strano di questo componente aggiuntivo deriva dall’ossido di cerio, un elemento chimico metallico, usato anche nella produzione di alcune leghe di alluminio. La cerina è contenuta in un serbatoio di 5 litri, sufficienti per una percorrenza di 80-120.000 chilometri e il beneficio principale sta nel fatto che in questo modo si riesce ad abbassare la temperatura a cui il particolato può essere distrutto. Ogni volta che si apre lo sportellino del rifornimento, viene calcolata automaticamente quanta cerina deve essere nel serbatoio, per essere miscelata nel serbatoio del diesel.
Va da sè che, trattandosi di una componente aggiuntiva, non tutte le case automobilistiche lo montano, principalmente per due motivi. Il primo è il rabbocco che deve essere fatto, una volta superati per l’appunto il chilometraggio sopraindicato, mentre il secondo è prettamente legato al peso totale dell’auto, che subisce un aumento. La differenza tra il FAP e gli altri filtri antiparticolati DPF è la temperatura a cui vengono bruciati le particelle inquinanti, non più a 450°, ma a 600° con un procedimento pressoché identico.
A questo punto, viene spontaneo chiedersi quali sono gli aspetti problematici o dove si trova la criticità di questi filtri costruiti per pulire le emissioni dei motori diesel. I lettori avranno notato che le PM10 raccolte sono raccolte in un serbatoio, per poi essere bruciate ogni tot numero di chilometri, a patto che l’autovettura sia portata ad una velocità di almeno 60-90km/h. Questa andatura è difficile da raggiungere nel caso in cui si effettuino solamente tragitti brevi o cittadini: sarà molto raro che si possa andare ai 70km/h in centro a Milano, Roma o altro. In più, questa velocità deve essere mantenuta per un tot di chilometri, ideale situazione per chi viaggia molto in autostrada. Inoltre, nel momento di pulitura, possono verificarsi cali di potenza del motore che, diventano permanenti, nel caso di una non completa pulitura autonoma della macchina. Nel caso infine il motore non riesca a “ripulirsi” dalle PM10, bruciandole, dopo 3 o 4 volte, sarà necessario recarsi presso un’officina specializzata per liberarlo manualmente, oltre alla sostituzione obbligatoria dell’olio motore (per via della necessaria diluizione di quest’ultimo). E i costi? Ovviamente aumentano nella gestione dell’auto.
E’ un errore concettuale però pensare che le PM10, una volta bruciate, spariscono nel nulla. La combustione di queste particelle le fa diminuire in diametro, portandole a raggiungere livelli di PM2.5 o addirittura inferiori. Questo significa che, se nel caso delle PM10, queste si limitano a raggiungere i primi livelli del sistema respiratorio, al diminuire del diametro di queste particelle inquinanti, esse riescono a raggiungere livelli più bassi del nostro sistema respiratorio, fino a raggiungere gli alveoli polmonare nei casi PM0.1.
Arriviamo ora ad una questione spinosa, ovvero le relazioni tra FAP e dieselgate, lo scandalo che dal 2015 ha visto la Volkswagen nell’occhio del ciclone. L’alterazione dei dati legati alle emissioni inquinanti, nascosti nei milioni di codici della centralina prodotta da Bosch, realizzata ad arte per non essere notata dalle autorità competenti di controllo, ha una diretta ripercussione sulle FAP. E’ vero che le nostre auto non hanno un ruolo preponderante per l’inquinamento globale, relegato principalmente al settore residenziale con le biomasse, all’agricoltura e industria, ma visto che è difficile andare a modificare le nostre abitudini a livello casalingo, come primo oggetto di revisione sono le auto e quindi i diesel. Rispetto al diesel 0, i valori di emissioni sono drasticamente calati di circa 30 volte, in particolare dall’euro 4 dal quale sono addirittura inferiori ai benzina. E’ quasi inspiegabile, osservando questo solo dato, allora la lotta che si sta facendo in modo sistematico al diesel, visto che le emissioni di pm10 del diesel sono inferiori a quelle di un benzina. Possedere un’auto diesel, nel caso in cui la si utilizzi prevalentemente in città, non è però un bene a causa della problematicità legata al processo di rigenerazione del filtro. Ed è per questo motivo che case automobilistiche, come Toyota, spingano così tanto per una mobilità cittadina con l’ibrido. Discorso diverso per gli automobilisti che sfruttano prevalentemente l’autostrada per i propri viaggi. In questo caso il diesel è ancora il carburante per antonomasia e che difficilmente troverà ostacoli importanti, anche in vista delle dichiarazioni della Bosch che è riuscita a sviluppare un dispositivo che permetta di ridurre le emissioni ad un livello di molto inferiore a tutte le norme attualmente in vigore.
In conclusione, il filtro fap non sembra essere destinato ad essere messo in soffitta. Stiamo a vedere come il nuovo dispositivo Bosch, che deve essere ancora presentato al mercato, si integrerà al nostro filtro fap. Ci auguriamo che qualunque sia la strada che ci aspetta, possa rispettare nel modo migliore il nostro pianeta, in termini di emissioni ambientali.
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